Native advertising: cos’è e come difendersi

Blindness

Cos'è il native advertising?
iStock.com/AndrewJohnson

Sul web, il 99.8% dei banner è completamente ignorato.

Esatto. Solo un misero 0.2% del totale di tutti i banner esistenti in rete viene effettivamente cliccato.
Di contro, il dato del 9% risalente al 2000 appare una vera pacchia, non è vero?

Insomma, la rete ha un problema: la banner blindness.

Il fatto è che per un utente navigato diventa sempre più facile identificare gli spazi pubblicitari, le affiliazioni, i popup e le skin in corso sul proprio portale preferito, diventandone sempre più immune.

O quantomeno abile nello schivarle.

La spasmodica crescita degli inserzionisti e degli spazi in cui far comparire un banner non aiutano certo a rientrare in numeri anche solo lievemente più positivi. Così, da qualche tempo è andata a definirsi una nuova forma di avertising “morbida”, ma non per questo meno …subdola. 🙂

L’hanno chiamata Native Advertising, ed è fatta così:

  • È presentata nel flusso dei contenuti principali
  • Non fa uso di automatismi
  • Non fa uso di box e non segue formati prestabiliti

Semplificando al massimo, potremmo dire che essa stessa è in buona parte contenuto. Contenuto mediamente pertinente, in grado di aggiungere realmente qualcosa al valore della pagina (a suon di euro entranti nelle casse di chi lo ospita).

Sotto un altro punto di vista, è un altro modo di fondere un annuncio pubblicitario più in profondità all’interno di un servizio o di un sito web, evitando il classico investimento in banner, skin, popup e compagnia bella.

Alcuni esempi sono tra noi già da qualche tempo:

  • I Promoted Tweets di Twitter
  • Le Sponsored Stories di Facebook
  • La Paid discovery di StumbleUpon

Metodi cioè pensati per raccontare qualcosa di un inserzionista senza invadere la routine o il flusso di navigazione dell’utente. Annunci che non sono neppure più tali, costruiti per fondersi -a un’esame anche approfondito- con il contenuto “naturale” di quello stesso mezzo o servizio. In alcuni casi, come ultima evoluzioni dei post sponsorizzati, sono espressamente votati a sfruttare tono e credibilità del tenutario del blog.

Come difendersi

La vera potenza della native advertising è che è, per l’appunto, nativa. Pensata su misura per ogni occasione, slegata da formati e approcci ripetibili nel tempo. Potenziata nella forma e nei contenuti per apparire quanto più naturale e “al posto giusto” possibile.

Se per Twitter, Facebook e simili è d’obbligo l’indicare apertamente quanto del contenuto fruito arrivi da un’inserzionista a pagamento, sui blog le cose si complicano. Manca ancora in Italia una legislazione precisa per i post sponsorizzati che porti a identificare chiaramente il rapporto tra publisher e inserzionista.

(e non ti dico quanti guest post ho rifiutato a oggi che cercavano di sfruttare questo metodo)

Dunque, vince il buonsenso.
Come riconoscere forme di avertising nativo sulle pagine dei nostri blog preferiti?

Ponendoci una semplice serie di domande.

  • Quanto spesso ne ha parlato?
  • Quanto è specifico l’articolo?
  • Quanti ne stanno parlando in contemporanea?
  • Quanto è in grado di argomentare?
  • Quanto fuoriesce dal seminato?

Soffermandoci cioè su questioni come il grado di approfondimento, il legame dell’articolo che stiamo leggendo con la restante direzione del sito. Sui cambiamenti di tono e sulle argomentazioni addotte nei commenti. È la base per diventare un pelino più coscienti di ciò che stiamo leggendo.

D’altronde, la lotta avverrà su due fronti.

Da un lato, le agenzie in grado di fare native advertising selezionano partner e creativi in grado di pubblicizzare un contenuto nel modo in cui questo già si muove sul portale di destinazione. Dall’altro lato l’utente, sempre più spesso immerso in un contenuto solo all’ultimo identificabile come sponsorizzato; solo in parte realmente sincero nelle intenzioni prima del fatidico click di conversione.

In tutto questo, il terzo incomodo. Come si comporterà Google? 😛

Francesco Gavello

Francesco Gavello

Consulente, formatore e public speaker in Advertising e Web Analytics. Sviluppo strategie di Inbound Marketing per progetti web di grandi dimensioni. Appassionato da sempre di illusionismo, un’arte che ha molto da spartire con il marketing.

8 commenti

  1. C’è un errore concettuale nell’incipit: l’efficacia dei banner non si misura solo con le performance. La familiarità con il brand/prodotto che genera l’esposizione ripetuta ad un messaggio è il valore aggiunto della display adv.

    Poi sono d’accordo che la native presenta il problema della riconoscibilità del messaggio pubblicitario e necessita di regolamentazione in tal senso.

  2. Sono d’accordo con Davide. Per certi Brand il banner si misura in impressioni e le conversioni si misurano in acquisti nella rete commerciale globale. Secondo me Google farà da piattaforma per tutti i circuiti pubblicitari del mondo, chiaramente prendendo un percentuale non definita. 😀

  3. Come Difendersi? E’perché mai dovrei difendermi, da cosa dovrei difendermi….Allora come mi difendo dalla pubblicità in TV oppure da quella in radio.

    Non vedo nessun senso in questo e molti altri post scritti in giro sul web sul tema, la pubblicità c’è e deve esserci se vogliamo che tutta la baracca di internet funzioni, proprio come le TV e le Radio. La cosa che mi fa più ridere e che lo scrivono le persone che col web ci vogliono guadagnare. Poco tempo fa ho letto una discussione sul forum AL VERDE dove tanti webmaster si lamentavano dei piccoli guadagni che avevano ma nel stesso thread e saltato fuori che tutti usavano i software per bloccare le pubblicità…secondo loro fastidiose 🙂 discorso allucinante, vogliono guadagnare ma gli da fastidio la pubblicità che propinano ai loro lettori…

    Guest post rifiutati Francesco…perché? Negli USA sono una cosa normale e i blogger crescono velocemente guadagnando tutti, solo in Italia c’è sto ca*** di modo di fare…faccio tutto io, se magari quello guadagna e io no come faccio, non lo sopporto.

    Sara per questo che il blogging e ancora al eta della pietra in Italia? Bo…

    1. Ciao Max,
      parlando di guest post rifiutati, mi riferisco unicamente a quelli che neanche troppo velatamente cercano di piazzare un link sponsorizzato a buon mercato, senza passare da alcuna controparte economica. E senza aggiungere nulla ai contenuti.

      Peraltro, di guest post di qualità questo blog ne è pieno. 🙂
      Tutta un’altra cosa invece camuffare da guest post una press release editata alla meno peggio.

      Riguardo al difendersi, diciamo che forse avrei potuto usare in alternativa “come esserne consapevoli”. Il punto è tutto qui. Per quanto mi riguarda sono assolutamente pro-advertising (per gli stessi motivi che citi tu): l’unico rischio è quello di non saper più segnare un confine chiaro anche per gli utenti tra ciò che è scritto perché lo si crede e ciò che si è pubblicato perché ci si guadagnava sopra.

      O no? 🙂

  4. d’altronde dovranno pur guadagnare qualcosa i blogger. a mio parere se l’articolo è esplicativo e ben strutturato, ben venga questa forma di marketing. già molti blogger che vendono e-book o servizi, includono all’interno dei loro articoli riferimenti ai loro prodotti. qualcuno rinunciando anche ad adsense per non perdere utenti.

  5. questo sito ha un che di magnetico e mi spiace doverlo lasciare, forse perchè non vedo pubblicità!
    ti seguirò un pò su fb vediamo che dici 🙂