Qual è la naturale eredità di una campagna virale?

Ok, generare attenzione. E poi?

Quando si conclude un virale?
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Stavo riguardando il già discusso video di Gary Vaynerchuk riguardo a brand, startup e social media e volevo porre la tua attenzione su un altro interessante dettaglio di quell’intervista, che parla di effetti virali e di “eredità” lasciata da questi ultimi al loro termine.

Mi riferisco al discorso che Gary fa interrogato sulla bontà della campagna Old Spice.

Old Spice, forse lo ricorderai, è stata una campagna di marketing gestita nel 2010 da Wieden + Kennedy il cui protagonista, Isaiah Mustafa, colto in perenne asciugamano in vita, promuoveva sì il prodotto ma intratteneva principalmente un dialogo in differita con tutti i propri follower, attraverso brevi video a loro dedicati.

Niente di scioccante, pauroso, sopra le righe o, come riporta Mashable nel link sopra, volto solo a creare il passaparola sulla base dell’effetto “WFT?!”.

Eppure, in grado in 24 ore dal lancio, di totalizzare 20 milioni di views sul primo video.

Secondo Gary, la campagna è stata perfetta, ben studiata, efficace ma alla fine, potremmo dire, poco lungimirante. Perché?

Perché, citando dal video, non inviti a casa tua migliaia di persone eccitate da te e da ciò che fai, per poi non parlarvi neppure una volta.

Il fatto è che la campagna virale di Old Spice ha generato sicuramente un numero di contatti impressionante. Parliamo di subscribers, di follower, di iscritti agli svariati canali con cui il brand, durante l’attività, si trovava a dialogare attivamente con i clienti.

Poi, il nulla. Terminata l’iniziativa, nessuno di questi fan è stato più considerato. Nessun ricontatto a posteriori, nessuna attività o discussione parallela. Solo un grande quantitativo di persone portate in casa e lasciate a loro stesse.

Ok, e adesso?

Fa riflettere su ciò che un virale dovrebbe avere come obiettivo.

Se Old Spice, durante la campagna virale, promuoveva coupon e altre attività atte a convertire l’attenzione generata in reali vendite, come avrebbe dovuto secondo te gestire tutto il processo conclusivo?

Davvero un virale dovrebbe avere come solo obiettivo il portare tantissima attenzione verso un brand, senza curarsi oggettivamente di cosa poi di questa attenzione il brand dovrebbe farsene al termine?

Oppure è compito di chi pianifica un’attività di questo genere, grande o piccola, mettere in conto il non poter tirare una metaforica leva per spegnere tutto ignorando le persone che ne hanno preso parte?

I fan, i follower, come spesso mi capita di dire, non sono bulloni. Creare attenzione significa doversi prendere la responsabilità di sostenerla, di dialogare con i tuoi nuovi contatti, di farli sentire a casa. Soprattutto quando si è tornati alla normalità.

Altrimenti, è come dare un party invitando persone che amano ciò che fai e che vogliono saperne di più, e poi ignorarli appena la festa è finita. Come ti sentiresti?

Francesco Gavello

Francesco Gavello

Consulente, formatore e public speaker in Advertising e Web Analytics. Sviluppo strategie di Inbound Marketing per progetti web di grandi dimensioni. Appassionato da sempre di illusionismo, un’arte che ha molto da spartire con il marketing.

2 commenti

  1. Ciao Fancesco hai toccato un tasto molto importante.

    Nel mio corso specifico proprio che una campagna promozionale di un libro può diventare virale in poco tempo, ma la buona reputazione online di un autore non potrà essere mai virale e fulminante, ma dovrà essere costruita col tempo.

    Concludo poi asserendo che la buona reputazione, una volta raggiunta (brand), permetterà di vendere tanti libri anche nel lungo termine, mentre una campagna virale può generare un picco di interesse nel breve termine (che magari non si tramuterà in vendite, ma esclusivamente in interesse) e tanti (mi piace come li hai definiti) bulloni che vanno a puntellare le tue grandi e deboli reti sociali.